Quo vadis, scuola?
Architettura e scuola: non solo edifici, ma spazi che formano, accolgono e costruiscono comunità. Questo numero riflette sul progetto scolastico come gesto civile, etico e sociale, tra libertà e appartenenza, responsabilità e immaginazione condivisa.
Nelle parole dei maestri cerchiamo l'autorevolezza giusta per tracciare una mappa del tesoro, con la X proprio sopra alla parola «educare». Come spesso accade, nell'etimologia si nasconde qualcosa di prezioso e dimenticato: educare originariamente significava «allevare», «nutrire», «far crescere» – non solo i bambini, ma anche gli animali e, più in generale, la vita. I Romani – gente concreta, si sa – usavano educāre nel senso tangibile di cura e sviluppo sano.
Insegnare architettura, diceva Luigi Snozzi, significa insegnare a guardare. Non a riconoscere stili o ripetere modelli, ma a interrogare criticamente paesaggio, società, città e relazioni umane che ogni progetto modifica. L’architettura non è mai neutra: ogni gesto progettuale è un atto etico e politico, un’assunzione di responsabilità verso il contesto che ereditiamo e trasformiamo. Giancarlo De Carlo portava questa visione ancora oltre, affermando che l’architettura non costruisce edifici, ma relazioni. Per lui la partecipazione non è accessoria, ma il nucleo pedagogico del progetto: è un processo aperto, dialogico, educativo. Gli spazi scolastici, più di ogni altro, incarnano questa responsabilità collettiva: luoghi dove si impara a vivere insieme, a esercitare la democrazia quotidiana, a negoziare differenze e conflitti. Ogni aula, corridoio, cortile è una micropolitica dello spazio.
Ma questa dimensione pedagogica rischia oggi di essere neutralizzata da spinte apparentemente razionali – un timore ben illustrato da Sandra Giraudi nella sua intervista. Questo numero offre un’ampia panoramica: una rassegna di progetti scolastici realizzati negli ultimi anni, frutto di concorsi pubblici con giurie competenti, rispondenti ai criteri fissati nei bandi. Eppure emerge una domanda più ampia: sotto la pressione di restrizioni economiche, massima funzionalità, compattezza e semplicità gestionale, si è affermato un filone che privilegia l’immagine dell’efficienza a scapito della qualità degli spazi aggregativi, comprimendo l’esperienza didattica, le possibilità di appropriazione da parte degli utenti e la capacità di generare appartenenza.
In questo scenario, il pensiero di Herman Hertzberger risuona con forza. La scuola deve essere «una piccola città», dove gli spazi invitano all’incontro, al movimento, alla crescita autonoma. L’architettura dev’essere struttura aperta, che non prescrive usi ma offre occasioni di scelta e appropriazione. Progettare una scuola significa creare zone di decompressione, interstizi di libertà, angoli informali dove la comunità scolastica possa vivere l’imprevisto con naturalezza.
Alison e Peter Smithson, già negli anni Sessanta, indicavano l’urgenza di apprendere dai codici della cultura viva. Cogliere insegnamenti dalle dinamiche della vita quotidiana era un invito a leggere la densità spontanea dei comportamenti urbani e sociali. Anche la scuola, come la città, è un organismo vivo e stratificato, fatto di usi molteplici che sfuggono a una pianificazione rigida. Rinchiudere l’esperienza educativa in modelli chiusi significa negare questa vitalità. Ancora più radicale Aldo Van Eyck, che nei suoi playgrounds sperimentava una pedagogia dello spazio libera e generativa. L’architettura deve proteggere la capacità infantile di meravigliarsi, esplorare, inventare. Questa curiosità non si esaurisce in un programma didattico, ma vive negli spazi di relazione, nella possibilità di muoversi, appropriarsi, immaginare. Il difficile equilibrio tra libertà e appartenenza, tra apertura e protezione non richiede necessariamente invenzioni: come osservano MoDusArchitects, una tipologia architettonica elementare, come un portico ritmato di colonne, può contenere tutta la complessità che oggi si chiede a una scuola.
Il presente numero non contrappone nostalgicamente passato e presente. Offre uno sguardo documentato sugli sviluppi recenti dell’edilizia scolastica ticinese, fotografando uno stato dell’arte con capacità progettuali diffuse, sforzi amministrativi e impegno di progettisti nel rispondere a esigenze complesse. Non è assenza di critica, ma contributo necessario. Questa rassegna ci interroga: quale direzione vogliamo dare alla scuola come architettura pubblica? Non un contenitore funzionale ridotto all’osso, ma un organismo vivo, generoso, attento al benessere quotidiano, aperto alla complessità del vivere. La funzione non deve diventare pretesto per un pauperismo progettuale: rispondere oggi alla funzione significa misurarsi con la complessità sociale, pedagogica e urbana che la scuola incarna. È in questa capacità di accogliere la complessità che la buona architettura trova la sua ragion d’essere.
Un ultimo prestito lo chiediamo a Teddy Cruz, architetto e urbanista che lavora con comunità segnate da fragilità e conflitti: per l'architetto americano di origine guatemalteca, l’architettura è tessitura sociale, processo che crea legami tra persone, luoghi e culture. A Gaza come in Ucraina e nel Sudan (ora anche in Iran), dove le scuole crollano sotto le bombe, questa lezione assume un’urgenza nuova e lacerante: progettare spazi per imparare è atto di sopravvivenza civile, gesto di resistenza contro l’annientamento. Ma il valore dell’educazione – fondamento di ogni comunità – è universale e riguarda anche i contesti apparentemente protetti come il nostro. Dove non ci sono macerie, può esserci disattenzione. Là dove il legame tra scuola e società si inaridisce, si indeboliscono tessuto democratico, rapporto con il territorio, fiducia nelle istituzioni. I limiti sono labili, come dimostra l’esperienza recente degli Stati Uniti d’America. Investire davvero nella scuola significa creare spazi non solo funzionali, ma profondamente sociali: luoghi di incontro, ascolto, costruzione del senso collettivo. L’architettura non può limitarsi a sapere che esistono questioni sociali: deve farsene carico e dar loro forma. Ossia accogliere la complessità, articolare spazi, ragionare in scala umana e urbana, pensare all’individuo e alla collettività. Un’aula ben progettata può contenere una classe, ma anche proteggere un bambino solo all’ombra di un albero rappresenta un gesto primario e fondativo. In questo, l’edilizia scolastica è una delle espressioni più alte – e più esigenti – dell’architettura pubblica.