Ar­chi­tet­tu­ra e iden­ti­tà al cen­tro del pri­mo pa­di­glio­ne to­go­le­se

Intervista alla curatrice Fabiola Bochele

Nell'intervista alla curatrice del primo padiglione togolese alla Biennale di Venezia emerge l'urgenza di uno sguardo inclusivo al patrimonio architettonico globale. Un padiglione che racconta di storia, identità e futuro, rivendicando lo spazio per le culture ancora ai margini.

Data di pubblicazione
26-06-2025

Per la prima volta nel palinsesto della Biennale, la Repubblica del Togo approda a Venezia con un padiglione che invita il pubblico a riscoprire il proprio patrimonio architettonico. La mostra ripercorre l’evoluzione dell’architettura togolese dalla fine del XX secolo a oggi, mettendo in luce contaminazioni culturali, trasformazioni stilistiche e condizioni socioeconomiche che hanno plasmato il volto del Paese.
Commissionato dalla direttrice e fondatrice del Palais de Lomé, Sonia Lawson, il progetto è stato curato dallo studio di architettura e ricerca NEiDA fondato dall’architetta Jeanne Autran-Edorh e dalla curatrice Fabiola Bochele, che ha condiviso con Archi la sua esperienza. 

Sophie Marie Piccoli: Nell’installazione presentata emergono molti elementi che sembrano ispirarsi alle tradizioni togolesi, come il tessuto, puoi raccontarci come è nata questa scelta? 
Fabiola Bochele: Volevamo creare una mostra interamente ideata, progettata e realizzata in Togo. Quindi abbiamo iniziato chiedendoci: cosa c'è a disposizione qui? Cosa si conosce? Su quali competenze locali possiamo fare affidamento?
Abbiamo lavorato con tre mestieri tradizionali molto importanti in Togo. Il primo è la ceramica: abbiamo utilizzato vasi in ceramica per appesantire le fotografie. Sono vasi realizzati localmente, con tecniche tramandate da generazioni. Le immagini sono poi incorniciate con legno attinto e lavorato dalla forte tradizione di falegnameria del Togo. I falegnami locali, che producono anche mobili, sono molto rispettati e ricercati nella regione. Infine, abbiamo utilizzato il tessuto, cucendo le immagini su stoffa, perché il lavoro tessile è profondamente radicato nella cultura togolese. 
È stato un processo davvero interessante.

Il titolo del padiglione, Considering Togo’s Architectural Heritage, richiama l'attenzione del pubblico internazionale sull’urgenza di una pronta valorizzazione del patrimonio architettonico nazionale come base consapevole alla progettazione del futuro attraverso un affascinante racconto fotografico che guarda ai più importanti edifici togolesi: dalle più antiche costruzioni in materiale argilloso, passando per il periodo dell’architettura afro-brasiliana sviluppata tra il XIX e il XX dagli schiavi di ritorno dal Brasile, sino alle avveniristiche esperienze degli ’60, periodo successivo all’indipendenza della nazione. 

Come si affronta la sfida della conservazione in contesti privi di strutture consolidate, come spesso accade in Africa?
È una questione che ci sta molto a cuore. Non pretendiamo di avere la risposta. Ma uno degli obiettivi principali di questo progetto è quello di fare un primo passo in questa direzione. Perché prima di poter preservare qualcosa, bisogna valorizzarlo.
La valorizzazione del patrimonio inizia con la consapevolezza, attraverso la documentazione, la scrittura e la narrazione. In questo modo, anche chi vede queste espressioni culturali ogni giorno potrebbe iniziare a vederle in modo diverso, come qualcosa che vale la pena preservare.
Il nostro ruolo è quello di contribuire a questo processo di consapevolezza e creazione di valore. Da lì, si spera che i decisori politici ne prendano atto e inizino a sostenere iniziative di conservazione. In Togo, ad esempio, sono già stati compiuti alcuni passi in questa direzione. La commissaria del nostro padiglione ha ad esempio restaurato un edificio coloniale in rovina, trasformandolo in uno spazio culturale, e il progetto è stato finanziato dallo Stato togolese.
Quindi siamo fiduciosi. Si tratta anche di educare gli studenti, di interessare le persone a impegnarsi con il proprio patrimonio.

Le architetture togolesi, come molte africane, restano spesso ignorate nel panorama internazionale, offuscate dalla centralità del canone occidentale. È emblematico che, tra le partecipazioni nazionali, solo tre siano africane: Marocco, Egitto e Togo.

Cosa significa per voi la prima partecipazione alla Biennale di Venezia?
Relatore: Ci si sente davvero importanti. All'ultima Biennale c'era una maggiore attenzione alla partecipazione africana, ma questa volta sembra che siamo tornati allo status quo. Quest'anno sono rappresentati solo tre paesi africani: il Marocco, l'Egitto e noi. Quindi sì, è un onore essere qui, ma è anche essenziale, una responsabilità. Speriamo che questo sia solo l'inizio, ma non è abbastanza. Lo diciamo sempre: non basta dire che si è aperti all'inclusione. Le istituzioni devono impegnarsi attivamente per capire perché è così difficile per molti paesi africani partecipare. L'onere non dovrebbe ricadere solo su di loro. Abbiamo invece bisogno di soluzioni creative, magari strutture di finanziamento, partnership o altro. Se si vuole essere veramente globali e universali, non si possono continuare a escludere intere parti del mondo. La presenza delle nazioni africane alle Biennali passate non dovrebbe essere vista come un'eccezione o un tema. Non è una moda, è parte del mondo. 

La necessità di porsi in un atteggiamento aperto e permeabile verso le più diversificate culture del mondo costituisce una delle premesse fondamentali per avere un dibattito inclusivo e completo sul presente e sulle potenzialità del nostro futuro. La partecipazione del Togo alla Biennale costituisce così l’occasione di uno sguardo nuovo su edifici in stato di abbandono, come l'Hotel de la Paix e la Bourse du Travail, o casi fortunati di restauri illuminati, come nel caso dell’Hotel 2 Février ristrutturato e il Palais des Congrès, in fase di restauro.
Per affrontare le sfide in arrivo occorreranno tutte le intelligenze, anche e soprattutto quelle sinora lasciate in ombra. 

Link alla pagina del Padiglione, La Biennale di Venezia 

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