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Tra arte e architettura

Nel saggio della co-curatrice di Archi | 02, viene indagato il rapporto tra arte e architettura attraversando esempi storici e progetti contemporanei in cui il confine tra le due discipline si fa poroso. Un viaggio tra sperimentazione e committenza pubblica, visione collettiva e poetiche individuali.

Data di pubblicazione
15-04-2025

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L’affermazione di Costantin Brâncuși secondo cui «l’architettura è scultura abitata» non solo dà ragione del profondo legame tra architettura e arte, ma apre a una infinita gamma di riflessioni rispetto alle quali la varietà delle opere presentate nelle pagine che seguono vuole dar conto, rifiutando qualsiasi genere di sintesi, per promuovere, viceversa, una sorta di moltiplicazione dei punti di vista. Ciò non per puro spirito classificatorio quanto piuttosto con l’intenzione di esplorare le innumerevoli possibilità che separano il rigore loosiano – secondo il quale «l’architettura non è un’arte, poiché qualsiasi cosa serva a uno scopo va esclusa dalla sfera dell’arte» (Ornamento e delitto, 1908) – dall’ambizione di Brâncuși di costruire in Central Park a New York una delle sue colonne, ospitandovi appartamenti all’interno dei quali fosse possibile vivere.1 Consapevoli che non si tratta di ragionare sulla cosiddetta utilità dell’arte né tantomeno di mettere in dubbio l’implicita rispondenza all’uso dell’architettura, non è tuttavia possibile ignorare i molteplici modi attraverso cui si sostanzia il rapporto tra arte e architettura, individuando le differenti occasioni grazie alle quali tale legame prende forma.

Se riferendosi al panorama storico e allo statuto legislativo svizzero è facile individuare una serie di esempi e di modalità di intervento per così dire tradizionali, ascrivibili al cosiddetto Kunst am Bau, guardando alla condizione attuale ci si trova di fronte a una fenomenologia articolata, all’interno della quale la relazione tra arte e architettura si fa più complessa e assai meno definita e definibile in termini di discendenze, ascendenze o predominanze.

Sulla scia della sintesi delle arti di matrice modernista, a partire dalla seconda metà del XX secolo, a valle di una serie di azioni intraprese precedentemente, prende vita la pratica del Kunst am Bau, da intendersi come strumento di promozione degli artisti e sostegno della cultura; così grazie al cosiddetto «Per Cent For Art» gli esempi di integrazione tra le arti si moltiplicano, sfruttando l’opportunità offerta dal testo di legge di prevedere uno specifico finanziamento dedicato alla realizzazione di opere d’arte nell’ambito di progetti edilizi finanziati con fondi pubblici.2

Secondo Visarte, l’associazione preposta a rappresentare l’interesse degli artisti professionisti delle arti visive in Svizzera, «l’arte nell’architettura e negli spazi pubblici non è un lusso superfluo [poiché] conferisce una dimensione emotiva al contesto funzionale dell’ambiente costruito, fornendo un contributo significativo alla qualità di vita e alla nostra identità». Non solo: «l’opera d’arte completa l’opera architettonica e l’ambiente, caricandoli di senso. Suscita curiosità, stimola la percezione, amplia lo sguardo sul mondo e propone nuove relazioni e nuovi significati».3

In accordo con quanto sostenuto da Visarte, per lungo tempo la pratica del Kunst am Bau ha reso possibile la creazione di opere d’arte concepite per situazioni architettoniche e urbane specifiche con risultati di notevole pregio. Negli anni, tuttavia, per una serie di condizionamenti di natura economica e procedurale, si è assistito sempre più frequentemente a realizzazioni artistiche che si collocano in una posizione secondaria rispetto all’architettura che le ospita; non pienamente integrate, anche perché spesso installate a lavori conclusi, esse sono state vittima di una sorta di declassamento, fino a trasformarsi sovente in decorazioni amovibili, per certi versi estranee allo spazio architettonico.

Forse per tali ragioni, recentemente si tende a prediligere interventi di genere differente, con l’intenzione di porre arte e architettura sullo stesso piano ed evitare qualsiasi tipo di gerarchia: una tendenza che al Kunst am Bau preferisce – seppur informalmente – il Kunst und Bau (o Kunst im öffentlichen Raum), dove l’impiego della congiunzione coordinante esclude (almeno concettualmente) rapporti di subordinazione meramente funzionali ad espletare il dettato legislativo e pone l’attenzione sull’idea che arte e architettura siano dipendenti l’una dall’altra. In questo senso, per sfatare alcune false credenze e aprire all’enumerazione delle possibili interrelazioni che qui si vogliono far emergere, basterebbe citare certe collaborazioni tra artisti e architetti, come quelle tra Helmut Federle e lo studio Diener & Diener per l’Ambasciata svizzera a Berlino o il Novartis Building a Basilea o ancora i casi assai proficui in cui l’arte si è rivelata efficace sismografo che spinge gli architetti a guardare oltre e anticipare temi non ancora entrati a far parte della pratica della costruzione.

Quale sia poi, all’interno di questa circolarità – per certi versi nuova, ma dalle radici antiche –, la quota e il ruolo di ciascuna disciplina, quanto l’una dipenda dall’altra, quale sia la loro autonomia espressiva o quali termini interpretativi sia necessario impiegare per mettere a fuoco queste intersezioni sarebbe da analizzare opera per opera, progetto per progetto. Tuttavia, per chiarire il campo in cui ci si sta addentrando è utile ricordare quanto sostenuto da Anthony Vidler nel 1999: «Gli artisti, anziché estendere semplicemente i loro termini di riferimento al tridimensionale, assumono le questioni dell’architettura come parte integrante e critica del loro lavoro in installazioni che cercano di criticare i termini tradizionali dell’arte. Gli architetti, parallelamente, stanno esplorando i processi e le forme dell’arte, spesso nei termini stabiliti dagli artisti, per sfuggire ai rigidi codici del funzionalismo e del formalismo. Questa intersezione ha generato una sorta di “arte intermedia”, composta da oggetti che, pur situati apparentemente in una pratica, richiedono i termini interpretativi di un’altra per la loro spiegazione».4

Tutto ciò innanzitutto per le numerose analogie tra i processi compositivi propri tanto delle arti quanto dell’architettura, ma anche per la condivisione di molti strumenti, quali, per esempio, il modello e la pratica della riproduzione di oggetti che, proprio grazie allo straniamento prodotto dal processo di riduzione o ingrandimento scalare cambiano valore e innescano nuove relazioni di senso. Rispetto a questa modalità di azione e ai suoi esiti, di sicuro interesse per il discorso qui avviato sono gli Assemblage di Clare Goodwin, che ricompongono elementi architettonici per dar vita a situazioni e significati inaspettati, o il lavoro del duo di artisti zurighesi Peter Fischli e David Weiss, che attraverso le diverse versioni di quello strano oggetto che è la loro Haus 5 operano una riflessione spaziale (finanche urbana) prima ancora che architettonica, incentrata sul rapporto tra dimensione, collocazione, carattere e percezione: con Haus «il contenuto “astratto” dell’architettura diventa il soggetto “figurativo” della scultura».6 Essa parla all’architettura dei suoi caratteri intrinseci, della monotona familiarità degli edifici comuni – se non «unspectacular» – e del loro inestricabile rapporto con la città che contribuiscono a costruire. In merito Stanislaus von Moos afferma: «sia come “progetto” architettonico sia come “scultura”, Haus, come il colpo di un gong, ha preso possesso della “terra di nessuno” tra architettura, urbanistica e scultura. E lo ha fatto proprio nel momento in cui quel regno cominciò a interessarsi all’arte».7

È a progetti che muovono in questa direzione che si vuole guardare, per sondare – a partire dall’arte o dall’architettura indifferentemente – i terreni in cui si esplicita la sovrapposizione tra le discipline e le modalità con cui tali intersezioni si concretizzano in opere, constatando quanto esperienze di questo tipo stiano promuovendo una sempre più marcata dimensione sperimentale della pratica architettonica, probabilmente influenzata dalle ricerche di matrice artistica che si dedicano a formalizzare riflessioni spaziali, politiche, sociali e culturali, approfittando di un reciproco scambio semantico.

Si intende quindi ribaltare la convinzione secondo la quale l’arte si trovi in una condizione ancillare rispetto al corpo solido dell’architettura e sostenere l’ipotesi, ben più labile, ma non per questo meno rilevante, che le strategie e gli strumenti più o meno effimeri impiegati dall’arte nell’ultimo secolo si stiano dimostrando in grado di rileggere più profondamente dell’architettura stessa i codici architettonici e il testo urbano e, di conseguenza, di influire più attivamente sulla realtà. L’arte è diventata un luogo di riflessione essenziale per l’architettura, almeno da quando l’architettura è entrata a far parte della sfera di interesse degli artisti, o meglio da quando gli artisti hanno iniziato a usare consapevolmente ed esplicitamente l’architettura e la città come supporto, non solo fisico, del loro lavoro.

Tornando al concetto di «intermediary art», per come esplicitato da Vidler, e sovrapponendo ad esso le riflessioni che si generano a partire dall’affermazione di Richard Serra secondo il quale «l’architettura non è arte! [poiché] l’arte è volutamente inutile ed è questo che la rende più libera degli edifici»8 tutto parrebbe complicarsi fino a un punto di stallo. Commentando le reazioni seguite alla realizzazione del Guggenheim di Bilbao, progettato dall’amico Frank O. Gehry,9 Serra, spinto dal pungolo di Charlie Rose, si addentra, infatti, in considerazioni apparentemente in contrapposizione con quanto sostenuto da Vidler: «non ho dato uno schiaffo pubblico a Frank. Ho detto che l’arte è volutamente inutile, che i suoi significati sono simbolici, interni, poetici, una serie di altre cose, mentre gli architetti devono rispondere al programma, al cliente e a tutto ciò che accompagna la funzione di utilità dell’edificio. Non confondiamo le due cose. Ora abbiamo architetti che vanno in giro dicendo: “Sono un artista”, e io semplicemente non ci credo. Non credo che Frank sia un artista. Non credo che Rem Koolhaas sia un artista. Certo, ci sono sovrapposizioni comparabili nel linguaggio tra scultura e architettura, tra pittura e architettura. Ci sono sovrapposizioni tra tutti i tipi di attività umane. Ma ci sono anche differenze che durano da secoli. Gli architetti sono più in alto nella gerarchia rispetto agli scultori, lo sappiamo tutti, ma non possono avere entrambe le cose».10

Al di là dell’essere d’accordo con Serra, proprio di questo si tratta: «di volere entrambe le cose!». Questo non tanto in termini di autorialità, quanto piuttosto in termini disciplinari, cosa che apparentemente pare contraddittoria, ma che Vidler spiega assai bene, individuando una tendenza sempre più diffusa in base alla quale ciò che si privilegia non è la singola opera (sia essa artistica o architettonica), ma la volontà di riflettere su processi, procedimenti e trascrizioni, in grado di alimentare dall’interno (e spesso anche dall’esterno) le discipline, i loro contenuti e, di conseguenza, i loro linguaggi, nell’assoluta consapevolezza che ogni tecnica abbia la sua estetica (e viceversa) e che da questo non si possa (e non si debba) prescindere.

Nel corso del secondo Novecento e tanto più con l’inizio del nuovo secolo, arte e architettura hanno accresciuto il loro tasso di problematicità; ciò ha prodotto una sorta di zona grigia in continua crescita, all’interno della quale si collocano molte delle sperimentazioni di maggior interesse che, mentre offrono uno spaccato rappresentativo delle nuove tendenze, pongono il problema dello status di collaborazione tra le parti interessate.

Nel 1982 Paolo Fumagalli scriveva: «Dove finisce l’opera dell’architetto e inizia quella dell’artista […] è, nei momenti più felici dei loro rapporti, difficile da distinguere».11 Certo è che il punto di contatto tra arte e architettura necessita di un processo di continua ridefinizione: in ogni singola occasione l’attenzione oscilla verso l’una o l’altra disciplina, spesso senza esigere una netta distinzione di campo, almeno per quello che riguarda gli interessi e le preoccupazioni di artisti e architetti.

Prendendo atto di tale complessità, non ci si può esimere dal chiedersi se sia necessario stabilire una distinzione tra i due domini o rivendicarne le rispettive autonomie. Se dovessimo rispondere affermativamente, potremmo ripartire da Loos e da Serra; se al contrario ammettessimo che non si tratta di individuare confini o competenze, ma dar conto di questa nuova zona franca e delle infinite possibilità che lavorare al suo interno offre, allora bisognerebbe provare a descrivere la fenomenologia formale, spaziale e sociale che si sta producendo.

Si tratta quindi di tentare un resoconto critico del ventaglio sempre più complesso dei casi in cui il rapporto tra arte e architettura si declina, con particolare attenzione al confine labile che in molte occasioni il mondo dell’arte stabilisce con quello dell’architettura e viceversa, senza dimenticare che il rapporto tra arte e architettura è anche un rapporto umano, che non si esaurisce nelle opere, ma che a partire da queste produce percorsi conoscitivi a cavallo delle discipline. Ciò è evidente se si rilegge il noto The Art Museum of My Dreams or A Place for the Work and the Human Being (1986) di Rémy Zaugg alla luce di alcuni progetti di Herzog & de Meuron o se si pensa all’influenza dello stesso Zaugg e di Joseph Beuys sul loro lavoro. Analogie dello stesso genere sono rintracciabili nelle collaborazioni per certi versi stabili tra architetti e artisti come quello tra Caruso St John e Thomas Demand, tra EMI Architekt*innen e Christian Hörler, tra Livio Vacchini e Livio Bernasconi o ancora nella proficua relazione tra Peter Märkli e Hans Josephsohn. L’elenco potrebbe essere pressoché infinito, ma un cenno ai disegni di Märkli è sufficiente per chiarire come l’arte sia spesso un luogo di riflessione essenziale per l’architettura poiché consente di misurare e quindi conoscere più profondamente lo spazio urbano e architettonico. Infatti, «guardando i disegni, si nota che gli edifici di Märkli, altrimenti disabitati, ospitano spesso sculture di Josephsohn, che si confrontano con gli elementi architettonici, li misurano, talvolta li definiscono riempiendo le aperture, fermando un angolo, sottolineando la chiusura verso l’alto. Talvolta diventano esse stesse, con la forte matericità delle forme abbozzate, elementi architettonici, e si fanno colonne, capitelli. Tra i disegni più recenti, sono le figure allungate, filiformi di Giacometti che si soffermano davanti a una facciata, si allungano, fino a superare l’altezza del possibile edificio, diventano nicchia, si trasformano in altro. Figure umane scolpite, sembrano più efficaci di astratte sagome proporzionate a conferire vita a queste architetture, nella ricerca di Märkli».12

In altri casi l’arte, fingendosi sostegno fisico dell’architettura, ne diventa supporto concettuale: Unverrückbar oder: Die Kunst der entscheidende Anfang von etwas sein / Inamovibile ovvero: L’arte può essere l’inizio decisivo di qualcosa di Eric Hattan nel nuovo atrio della St. Jakobshalle di Basilea degli architetti Jürg Berrel e Heinrich Degelo gioca sullo spaesamento e si fa carico di dimostrare che proprio come la prima pietra «l’arte si colloca al principio dell’architettura e non è affatto un ripensamento».13 Un gigantesco masso di 25 tonnellate viene posizionato alla base dell’unico pilastro di sostegno della copertura del foyer. La reazione del masso alle sollecitazioni era imprevedibile e quindi la statica strutturale non poteva essere determinata in modo tradizionale, inoltre gli architetti volevano che il pilastro fosse rastremato verso il basso. Tutto allude a una colonna rovesciata con un ancestrale capitello lapideo, apparentemente instabile oltre che insolita, e ciò avviene grazie alla soluzione strutturale proposta dagli ingegneri Schnetzer Puskas che hanno appeso la pietra alla colonna grazie a una trave d’acciaio che attraversa, collegandoli, il sostegno in calcestruzzo e il masso, che a sua volta poggia su una vasca d’acciaio disposta nel terreno.14

È questo uno di quei casi a cui si vuole alludere poiché, al di là di qualunque considerazione di carattere formale e forse anche al di là degli esiti (artistici o architettonici), fa risuonare l’affermazione di Donald Judd secondo cui «[mentre] tutti vogliono trattare arte e architettura come una questione di gusto, io voglio considerarla una questione di conoscenza».15

1. «Vorrei realizzare la mia colonna a Central Park. Sarebbe più grande di qualsiasi edificio, tre volte più alta del vostro obelisco a Washington, con una base altrettanto larga, sessanta metri o più. Sarebbe fatta di metallo. In ogni piramide ci sarebbero appartamenti e ci vivrebbero delle persone, e proprio in cima metterei il mio uccello – un grande uccello in bilico sulla punta della mia colonna infinita»
F. Merrill, Brâncusi, the Sculptor of the Spirit, Would Build ‘Infinite Column’ in Park, in «New York World», 3 ottobre 1926 [TdA].

2. È del 1887 la prima risoluzione federale per la promozione delle arti; nel 1950 si stabilì di valorizzare gli edifici pubblici, destinando l’1% dei costi di costruzione alla realizzazione di opere d’arte, in analogia con altri programmi esteri come, ad esempio, il noto «art-in architecture» statunitense, o misure simili adottate in Francia, in Germania e in Italia.

3. Cfr. https://visarte.ch/it/arte-nellarchitettura/

4. A. Vidler, Warped Space: Art, Architecture, and Anxiety in Modern Culture, The MIT Press, Cambridge MA 2000, p. vii [TdA].

5. Per quanto riguarda la descrizione di quest’opera e il ruolo che essa ha avuto nel contesto culturale all’interno del quale è stata concepita, si rimanda a quanto evidenziato da Philip Ursprung.

6. S. von Moos, Peter Fischli, David Weiss: Haus, Walther König, Köln 2020, p. 12 [TdA].

7. Ivi, p. 13 [TdA].

8. R. Serra, Art and Design. Talk with Charlie Rose, 14 dicembre 2001, min. 43.46 e seguenti [TdA], cfr. https://charlierose.com/videos/18060

9. È importante ricordare che per l’ala appositamente disegnata da Gehry per le opere di Serra (la cosiddetta «boat gallery»), l’architettura espressiva del canadese provò a fare un passo indietro, in modo che la spazialità delle opere dell’artista californiano potesse venir pienamente celebrata: in questo caso il gesto architettonico è a servizio dell’inutilità dell’arte.

10. Citato in C. Tomkins, Lives of the Artists: Portraits of Ten Artists Whose Work and Lifestyles Embody the Future of Contemporary Art, Henry Holt and Company, New York 2008, p. 73 [TdA].

11. P. Fumagalli, L’opera d’arte nell’architettura, in «Rivista Tecnica», n. 7-8, 1982, p. 22.

12. M. Maguolo, Tracce visive di pensiero. Presentazione di Peter Märkli Dessins/Disegni, in «La Rivista di Engramma», n. 207, 2023, p. 119.

13. Dal Comunicato stampa del Dipartimento della Presidenza del Canton Basilea Città, settembre 2017, cfr. https://www.hattan.ch/fileadmin/hattan/user_upload/PDFs/Kunst_und_Bau/2014_EH_St.Jakob_Doku.pdf.

14. Cfr. First the Stone, film di Severin Kuhn, 2018, https://www.degelo.net/projekte/intervention-ix.php.

15. Nota intitolata «15 luglio 1987, 101 Spring Street», in D. Judd, Donald Judd Writings, a cura di| curated by F. Judd, C. Murray, Judd Foundation/David Zwirner Books, New York, p. 472 [TdA].